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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione
Diritto della concorrenza UE / Abusi e settore digitale – La Commissione avvia un procedimento su Facebook Marketplace
Lo scorso 4 giugno, la Commissione europea (Commissione) ha annunciato di aver avviato un procedimento nei confronti di Facebook (Facebook). In particolare, la Commissione valuterà se Facebook abbia agito in violazione degli articoli 101 o 102 TFUE (che, rispettivamente, proibiscono le intese anticoncorrenziali e gli abusi di posizione dominante) nel mercato della fornitura di servizi per le inserzioni online (anche definito come classified advertising).
A suscitare l’interesse della Commissione è il duplice ruolo svolto da Facebook su tale mercato. Per un verso, Facebook consente ai fornitori di inserzionistica online (ad es. piattaforme online che facilitano la vendita di automobili, beni di consumo, servizi turistici o immobiliari) di offrire i propri servizi tramite Facebook, sponsorizzando inserzioni e mettendo in contatto i propri inserzionisti con gli utenti di Facebook. Per altro verso, Facebook gestisce la propria piattaforma di inserzionistica online, ossia Facebook Marketplace, che consente agli utenti di Facebook (sia utenti privati, sia professionali) di vendere o comprare beni o servizi tramite brevi inserzioni.
In questo contesto, l’indagine della Commissione dovrebbe svilupparsi su due fronti. In primo luogo, la Commissione valuterà se Facebook effettua un uso anticoncorrenziale dei dati che raccoglie dai fornitori terzi di inserzionistica online. Ad avviso della Commissione, Facebook potrebbe sfruttare i dati su modelli e preferenze di acquisto degli utenti dei fornitori terzi per migliorare la propria offerta su Facebook Marketplace, permettendo una personalizzazione più efficace delle offerte dirette ai propri utenti. In secondo luogo, la Commissione procederà a valutare se il modo in cui Facebook Marketplace è integrato con la piattaforma Facebook costituisce una pratica legante (tying) abusiva ai sensi dell’articolo 102 TFUE.
Parallelamente alla Commissione, la Competition and Markets Authority del Regno Unito (CMA) ha annunciato di aver avviato un procedimento avente ad oggetto condotte simili a quelle finite sotto la lente della Commissione. In particolare, la CMA intende verificare se Facebook abbia fatto un uso abusivo dei dati raccolti tramite la piattaforma Facebook al fine di migliorare la propria offerta su Facebook Marketplace e Facebook Dating. Sia la Commissione, sia la CMA hanno dichiarato che lavoreranno a stretto contatto nella conduzione dei rispettivi procedimenti.
L’avvio delle istruttorie nei confronti di Facebook costituisce un’ulteriore conferma dell’attenzione che le autorità a tutela della concorrenza stanno riservando ai mercati digitali. In questa fase preliminare, ci sembra di poter segnalare almeno due profili di particolare interesse.
Sotto il profilo procedurale, sarà interessante monitorare la gestione di procedimenti paralleli da parte della Commissione e della CMA. A seguito dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, scenari simili saranno sempre più frequenti. È di fondamentale importanza assicurare un coordinamento efficiente tra le due autorità di concorrenza – ciò è tanto più vero nel caso dei mercati digitali, in cui il rischio di frammentazione dell’enforcement è particolarmente elevato (trattandosi di mercati per loro natura dematerializzati e di dimensione transfrontaliera).
Sotto il profilo sostanziale, la prima delle condotte oggetto di indagine (ossia l’uso dei dati di operatori terzi per migliorare l’offerta Facebook) ricalca un modello di enforcement oramai consolidato. I comportamenti oggetto di scrutinio sembrano simili a quelli che hanno portato all’invio di una comunicazione degli addebiti ad Amazon nel caso pendente avanti alla Commissione, relativo all’uso, da parte di Amazon, dei dati relativi alle vendite di operatori terzi sulla piattaforma Amazon al fine di migliorare la propria offerta quale rivenditore indipendente (AT.40462). La seconda condotta oggetto di indagine, invece, costituisce invero una novità nel settore digitale. Sulla base di quanto divulgato in questa fase, la Commissione sembra intenzionata a testare l’applicabilità della ‘classica’ fattispecie delle pratiche leganti alle tematiche digitali. Non resta che attendere l’esito del procedimento per verificare la tenuta di questo esperimento.
Luca Villani
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Intese e settore del riciclaggio di batterie per autoveicoli – La Corte di Giustizia ha respinto il ricorso presentato da Recylex e ha confermato la sanzione di circa 27 milioni di euro
Con la sentenza dello scorso 3 giugno (la Sentenza), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha respinto il ricorso presentato dalle società La Recylex SA, la Fonderie et Manufacture de Métaux SA, e Harz-Metall GmbH (congiuntamente, Recylex) – attive nella produzione di piombo riciclato e di altri prodotti derivati – avverso la precedente sentenza del Tribunale dell’Unione europea (il Tribunale UE) che rigettava la richiesta di Recylex di riduzione della sanzione di quasi 27 milioni di euro imposta dalla Commissione europea (la Commissione) con decisione dell’8 febbraio 2017 (la Decisione).
In particolare, la Decisione era stata emessa al termine di un procedimento avviato nel giugno 2015 in seguito al ricevimento di una domanda di immunità (c.d. leniency) da parte delle società Johnson Controls Inc., Johnson Controls Tolling GmbH Co. KG e Johnson Controls Recycling GmbH (congiuntamente, JCI), alla quale sono seguite le domande di clemenza delle società Eco-Bat Technologies Ltd, Berzelius Metall GmbH e Société de traitement chimique des métaux SAS (congiuntamente, Eco Bat) e di Recylex stessa. Con la Decisione, la Commissione ha determinato che Recylex, JCI ed Eco-Bat (congiuntamente, le Parti) avevano posto in essere – tra il settembre 2009 ed il settembre 2012 – una condotta anticoncorrenziale consistente in un’intesa unica e continuata avente ad oggetto l’acquisto di rifiuti di batterie per autoveicoli ed il coordinamento dei relativi prezzi (il Cartello). La Commissione ha riconosciuto a favore di JCI la piena immunità dalla sanzione, in quanto prima società a presentare una richiesta di clemenza e a fornire elementi idonei a permettere alla stessa di venire a conoscenza del Cartello; la Commissione ha anche applicato una riduzione dell’importo dell’ammenda pari al 50% a favore di Eco-Bat, in quanto seconda impresa ad aver fornito elementi ulteriori rispetto a quelli previamente forniti da JCI; ed, infine, a Recylex una riduzione della sanzione pari al 30%, alla luce delle informazioni da questa fornite (rilevanti soprattutto per quanto concerne l’origine del Cartello).
Nell’aprile 2017, Recylex aveva impugnato la Decisione dinnanzi al Tribunale UE al fine di ottenere un’ulteriore riduzione dell’importo della sanzione inflittale. A sostegno, Recylex aveva dedotto sei distinti motivi, i quali vertevano principalmente su un’errata interpretazione (ed applicazione) della Comunicazione della Commissione relativa all’immunità dalle ammende (la Comunicazione) nonché sull’errata determinazione dell’estensione geografica del Cartello. Come detto, tuttavia, il Tribunale UE aveva rigettato in toto i motivi di ricorso presentati da Recylex.
Avverso tale sentenza Recylex aveva quindi presentato appello dinnanzi alla CGUE, basando le proprie doglianze su tre motivi di ricorso, i primi due focalizzati sui criteri giuridici e probatori applicabili alla concessione dell’immunità parziale ai sensi del punto 26 della Comunicazione mentre il terzo era incentrato su un asserito errore nel concedere ad Eco-Bat una riduzione pari al 50% nonostante quest’ultima avesse fornito informazioni geograficamente incomplete e fuorvianti sul Cartello.
Per quanto concerne i primi due motivi, la CGUE ha ora sottolineato come il Tribunale UE abbia correttamente determinato che la Commissione fosse già a conoscenza dell’esistenza degli elementi fattuali indicati da Recylex nella propria domanda di clemenza, nonché della portata territoriale del Cartello e che quindi la stessa Recyclex fosse stata correttamente posta al terzo posto della graduatoria. Sul punto, inoltre, la CGUE ha riconosciuto come “inconferenti” gli argomenti addotti da Recylex circa l’asserita necessità da parte del Tribunale UE di effettuare un raffronto tra gli elementi a disposizione della Commissione e quelli forniti da Recylex.
Relativamente al terzo motivo, la CGUE ha sottolineato l’imprescindibilità dell’ordine cronologico in cui più imprese coinvolte in una richiesta di leniency presentino le rispettive domande. Tuttavia, ricordando come ad un’impresa possa essere negata la riduzione della sanzione qualora questa non adotti un comportamento conforme alla Comunicazione, la CGUE ha ricordato come tale mancato beneficio non comporti che le parti che hanno prodotto successivamente elementi di prova ulteriori “possano esserle sostituite nella classificazione cronologica”. Alla luce di ciò, pertanto, la CGUE ha riconosciuto come il Tribunale UE abbia agito correttamente non riconoscendo a Recylex una riduzione superiore al 30%, in quanto questa ha presentato domanda di clemenza solo successivamente ad Eco-Bat, la quale – si ricordi – ha comunque fornito alla Commissione elementi probatori con un “valore aggiunto significativo” che gli sono valsi una riduzione pari al 50% dell’importo dell’ammenda.
Con la sentenza oggetto del presente commento, in altre parole, la CGUE ha posto in luce ancora una volta l’importanza per le imprese che intendono avvalersi del programma di leniency offerto dalla Commissione di agire in maniera celere e completa, al fine di vedersi riconosciuto il più elevato ammontare di sconto possibile.
Luca Feltrin
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Abusi e settore digitale – L’Autoritè de la concurrence sanziona Google per abuso di posizione dominante nella pubblicità digitale
Lo scorso 7 giugno, Google ha accettato di pagare una sanzione di 220 milioni di euro e di modificare il funzionamento del proprio business adtech, ponendo fine all’indagine dell’Autorità della concorrenza francese (Autorité de la concurrence) che le contestava di aver abusato della propria posizione dominante nel mercato della pubblicità digitale.
L’indagine dell’autorità francese era scaturita da alcune segnalazioni effettuate nel 2019 dai gruppi editoriali News Corp, Rossel La Voix e Le Figaro. Al fine di automatizzare la vendita degli spazi pubblicitari all’interno dei loro siti e applicazioni, tali editori si affidano a strumenti tecnologici complessi. In particolare, al fine di ottimizzare le entrate, gli spazi pubblicitari vengono offerti contemporaneamente tramite diverse piattaforme (c.d. Supply Side Platforms, SSP), che, fungendo da veri e propri marketplace, organizzano aste in tempo reale tra gli inserzionisti. Le offerte vincenti nelle SSP vengono trasmesse a un c.d. ad server centralizzato, il quale seleziona la pubblicità da mostrare sul sito o l’applicazione dell’editore.
Per consentire agli editori di monetizzare i propri spazi pubblicitari Google offre (i) l’ad server ‘Doubleclick for publishers’ (DFP); (ii) e la piattaforma SSP Doubleclick Exchange (AdX). Entrambe le tecnologie sono commercializzate sotto il brand Google Ad Manager a partire dall’estate del 2018.
Secondo l’autorità francese, Google avrebbe realizzato due pratiche distinte per fare in modo che il suo ad server DFP favorisse la piattaforma di vendita AdX e, viceversa, che la sua piattaforma AdX favorisse il suo ad server DFP.
In primo luogo, l’ad server DFP non consentirebbe una concorrenza ad armi pari tra AdX e le SSP concorrenti. In particolare, DFP avrebbe indicato, fino a poco tempo fa, il prezzo offerto dalle piattaforme concorrenti ad AdX per consentirle di ottimizzare le proprie offerte massimizzando le chance di risultare vincente, in particolare variando la sua commissione in base alla pressione competitiva esercitata dalle altre SSP. L’utilizzo di tali informazioni avrebbe quindi determinato un effetto escludente nei confronti delle SSP concorrenti di AdX.
In secondo luogo, la piattaforma AdX sarebbe stata resa solo parzialmente interoperabile con gli ad server concorrenti di DFP. Di conseguenza, gli ad server concorrenti non avrebbero avuto accesso a una porzione significativa dalla domanda degli inserzionisti.
L’autorità francese ha attribuito particolare gravità alle condotte in parola, in quanto, limitando l’attrattività per gli editori degli ad server e delle SSP di terzi, avrebbero pregiudicato la capacità dei concorrenti di emergere su un mercato in forte crescita. Anche gli editori, già in difficoltà a causa del calo delle vendite di abbonamenti e dei ricavi pubblicitari associati, avrebbero subito un danno non avendo potuto accedere alle migliori offerte provenienti dalle SSP concorrenti.
Google non ha contestato le accuse mosse dall’autorità francese, senza che però ciò costituisse un’ammissione di responsabilità, raggiungendo una transazione (c.d. settlement) per un importo pari a 220 milioni di euro. Google ha inoltre offerto una serie di impegni volti a migliorare l’interoperabilità dei servizi di Google Ad Manager con gli ad server e le piattaforme di terzi. In particolare, Google si è vincolata per un periodo di tre anni a condotte dirette a:
- permettere un accesso equo alle informazioni sul processo d'asta per le SSP terze;
- garantire che AdX non utilizzi più il dato sul prezzo delle SSP concorrenti per ottimizzare le sue offerte;
- permettere agli editori che utilizzano ad server di terzi di accedere ad AdX on-demand in tempo reale.
La decisione ha suscitato un notevole interesse in quanto è una delle prime ad esaminare in maniera dettagliata i complessi processi di aste algoritmiche attraverso i quali funziona la pubblicità digitale, oggetto di attenzione a livello globale sia a fini di public enforcement sia in materia di private litigation.
Luigi Eduardo Bisogno
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Gun Jumping e settore digitale – Facebook accetta un settlement con l’Autorità della concorrenza austriaca per non avere notificato la propria acquisizione di GIPHY
Facebook ha concluso un accordo di settlement con l’Autorità Federale della Concorrenza Austriaca (AFCA), accettando di pagare una sanzione pari a 9,6 milioni di euro in relazione alla mancata notifica ai sensi della normativa austriaca in materia di concentrazioni dell’operazione con la quale Facebook ha acquisito la società GIPHY (l’Operazione contestata).
GIPHY fornisce contenuti multimediali tramite software che vengono inclusi in, e presentati all’utente tramite, applicazioni di proprietà di Facebook. La normativa austriaca relativa alle notifiche antitrust è stata recentemente modificata per estenderne l’ambito di applicazione anche alle operazioni – comuni nel settore dei prodotti digitali – che coinvolgono società il cui valore non è accuratamente rappresentato dalla misura del fatturato. Tali operazioni sono state una preoccupazione crescente per le autorità antitrust, nella misura in cui i fatturati contenuti di imprese di recente costituzione ma in fortissima crescita fanno sì che, di regola, le acquisizioni di tali società non siano soggette all’obbligo di notifica ai fini antitrust. La soluzione adottata in Austria è stata quella di estendere l’obbligo di notifica alle operazioni di valore superiore ai 200 milioni di euro, a prescindere dal fatturato della target, purché quest’ultima conduca “significative attività” in Austria.
Sembra essere stato proprio quest’ultimo requisito a indurre Facebook e GIPHY a non notificare l’Operazione contestata all’AFCA, in considerazione del fatto che GIPHY non avrebbe condotto attività significative direttamente in Austria. L’AFCA, tuttavia, ha contestato tale ricostruzione, stabilendo che la valutazione dell’entità delle attività condotte sul territorio austriaco deve ricomprendere non solo i clienti/gli utenti diretti di GIPHY, ma anche gli utenti di altri servizi o di siti internet di terze parti che integrano le interfacce di GIPHY nelle proprie – in questo caso, per esempio, le note applicazioni Signal, Snapchat e Facebook stessa.
Pertanto, l’AFCA ha avviato un procedimento per violazione dell’obbligo di notifica (c.d. gun-jumping) nei confronti di Facebook e GIPHY. Facebook ha peraltro collaborato con l’AFCA e ciò ha permesso la conclusione di un accordo bonario di conclusione del procedimento, ai sensi del quale Facebook dovrà versare la somma sopraindicata.
La decisione dell’AFCA, qualora altri paesi dovessero adottare approcci analoghi alla valutazione dell’esistenza di un nesso con il proprio territorio, potrebbe costituire un primo passo verso un ampliamento estremamente significativo degli obblighi di notifica applicabili alle acquisizioni di società che, come GIPHY, integrano i propri prodotti nelle interfacce di servizi e piattaforme utilizzate in tutto il mondo. Ciò potrebbe causare un significativo aggravio degli oneri, in primo luogo, sostenuti dalle parti delle operazioni notificande, le quali dovrebbero rendersi responsabili di rintracciare globalmente gli utenti dei servizi in cui sono integrati i propri prodotti digitali, conducendo vere e proprie indagini attraverso le società che distribuiscono tali servizi. Non solo; anche per le autorità della concorrenza l’applicazione equa ed omogenea di simili regole richiederebbe un importante sforzo, posto che ben potrebbe condurre a richiedere l’applicazione delle discipline nazionali anche a operazioni tra parti il cui collegamento con il territorio nazionali sia minimo.
Da ultimo, un approccio come quello descritto nel caso in esame potrebbe risultare rilevante anche per l’applicazione del meccanismo di rinvio alla Commissione europea dell’esame di un’operazione che, pur non raggiungendo le soglie di notificabilità previste dal regolamento 139/2004 (il Regolamento concentrazioni), hanno effetto su più di un mercato nazionale. In particolare, anche alla luce delle recenti linee guida pubblicate dalla Commissione europea il 26 marzo 2021 sull’applicazione del meccanismo di rinvio di cui all’articolo 22 del Regolamento Concentrazioni (le Linee Guida sul rinvio), per avvalersi di tale meccanismo, l’autorità rinviante deve dimostrare l’esistenza di un effetto sul proprio Paese, non potendo dunque prescindere da considerazioni analoghe a quelle svolte dall’AFCA per affermare la propria competenza.
Riccardo Fadiga
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Tutela del Consumatore / Pratiche commerciali scorrette e settore digitale – L’AGCM ha inflitto una sanzione di 1,5 milioni di euro a tre società del gruppo ASUS per inottemperanza ad un proprio provvedimento
Con la decisione dello scorso 11 maggio 2021 (la Decisione), l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha sanzionato in solido ASUSTeK Italy S.r.l., ASUS Europe B.V. e ASUS Holland B.V. (congiuntamente, ASUS) per un totale di 1,5 milioni di euro, per non aver ottemperato a quanto disposto nel precedente provvedimento del 27 novembre 2019 (il Provvedimento), con cui la stessa AGCM aveva accertato che ASUS avesse posto in essere tre distinte pratiche commerciali scorrette, vietandone la diffusione o continuazione ed irrogando una sanzione di oltre 3 milioni di euro.
Nello specifico, con il summenzionato Provvedimento, l’AGCM aveva sanzionato ASUS per avere: (i) mancato di fornire ai propri consumatori una adeguata informativa sulla garanzia dei propri prodotti, non specificando, da un lato, che la garanzia offerta in qualità di produttore era di tipo convenzionale e, dall’altro, non illustrando correttamente i diritti riconosciuti dal Codice del Consumo in tema di garanzia legale; (ii) ostacolato il riconoscimento della garanzia tramite comportamenti come: l’utilizzo di motivazioni pretestuose e/o di condotte dilatorie, il sistematico ricorso alla riparazione in luogo della sostituzione o del rimborso, il mancato rimborso in tempi ragionevoli; e (iii) addebitato spese ingiustificate ai consumatori per la prestazione della garanzia legale, attraverso la richiesta di pagamento di una somma forfettaria a fronte del preventivo rifiutato.
Nel maggio 2020, ASUS aveva sottoposto all’AGCM la propria relazione di ottemperanza (la Relazione), in cui comunicava le misure adottate in esecuzione del Provvedimento. La Relazione prevedeva, in particolare: (i) il miglioramento dell’informativa sulla garanzia, attraverso la predisposizione di un apposito modulo in cui veniva descritto in dettaglio il contenuto sia della garanzia convenzionale, sia di quella legale; (ii) l’eliminazione dell’addebito ingiustificato di spese forfettarie per la prestazione della garanzia legale; nonché (iii) la riduzione degli ostacoli e delle dilazioni nella prestazione della garanzia (e in particolare la sostituzione del prodotto difettoso), tramite modifiche alle procedure aziendali interne.
L’AGCM ha tuttavia rilevato che le misure adottate da ASUS e descritte nella Relazione non fossero sufficienti ad eliminare i profili di scorrettezza accertati nel Provvedimento, specialmente in relazione alle condotte asseritamente ostruzionistiche adottate da ASUS per ritardare la sostituzione in garanzia dei prodotti difettosi, dilatando le tempistiche attraverso il ricorso a ripetuti (almeno tre) tentativi di riparazione prima di offrire la sostituzione del prodotto. Sul punto, l’AGCM ha ritenuto che misure adottate da ASUS e descritte nella Relazione costituissero “una mera semplificazione sostanzialmente replicativa” della procedura di sostituzione in garanzia oggetto di sanzione.
L’AGCM ha pertanto concluso che tale nuova procedura attuata da ASUS costituisse inottemperanza al divieto di diffusione o continuazione delle condotte accertate nel Provvedimento, decidendo di irrogare una sanzione di 1,5 milioni di euro. Nel determinarne la quantificazione, l’AGCM ha tenuto conto della notevole dimensione economica di ASUS, del significativo grado di offensività delle infrazioni e del pregiudizio economico arrecato ai consumatori in relazione alla mancata disponibilità dei beni difettosi.
Con la presente Decisione, l’AGCM ha confermato ancora una volta la propria intransigenza nei confronti dell’inottemperanza a quanto da questa definito con i propri provvedimenti sanzionatori, nonché la particolare attenzione alla tutela dei diritti del consumatore in tema di garanzia legale e convenzionale.
Luca Casiraghi
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Appalti, concessioni e regolazione / Procedure ad evidenza pubblica e settore dell’edilizia – La Corte di Giustizia si pronuncia sulla disciplina italiana dell’avvalimento
Con la sentenza del 3 giugno 2021, resa nella causa C-210/2020, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha dichiarato in sede pregiudiziale il contrasto con il diritto UE dell’obbligo di esclusione automatica di un concorrente da una procedura ad evidenza pubblica previsto dall’art. 89 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) nell’ipotesi di dichiarazioni mendaci del soggetto con cui esso stipula un contratto di avvalimento (c.d. ausiliario).
Il contenzioso da cui trae origine la pronuncia in commento riguarda una gara d’appalto indetta dall’AUSL Toscana Centro per l’affidamento di lavori di demolizione di un ex presidio ospedaliero. Il raggruppamento di imprese ricorrente impugnava dinanzi al Tar Toscana la propria esclusione, motivata dalla circostanza che l’ausiliario non avesse menzionato un patteggiamento a carico del proprio legale rappresentante. Tale omissione integrava, secondo l’ente appaltante, un’ipotesi di dichiarazione mendace ai sensi del richiamato art. 89 del Codice dei contratti pubblici e, dunque, imponeva l’esclusione automatica del raggruppamento partecipante alla gara. Il Tar Toscana ha accolto il ricorso di primo grado. La relativa sentenza è stata impugnata dall’amministrazione aggiudicatrice dinanzi al Consiglio di Stato. Quest’ultimo, con ordinanza, ha sospeso il processo e posto la questione pregiudiziale in commento alla CGUE.
L’oggetto dell’intervento della CGUE riguarda una disposizione specifica dell’art. 89 del Codice dei contratti pubblici (dedicato interamente alla disciplina dell’istituto dell’avvalimento), laddove ricollega alla formulazione di dichiarazioni mendaci da parte di una ditta ausiliaria il duplice effetto: (i) di escludere dalla gara il concorrente che se ne avvale; e (ii) di imporre l’escussione della garanzia provvisoria da quest’ultimo prestata in sede di partecipazione alla gara stessa. In altre parole, in virtù di questa disposizione, il concorrente si trova esposto all’adozione di un provvedimento sanzionatorio per effetto di una condotta non propria, bensì di un terzo (l’ausiliario).
In tale contesto, il parametro normativo che la CGUE ha assunto per dirimere la questione interpretativa è l’articolo 63 della direttiva 2014/24, letto alla luce del principio di proporzionalità.
Il richiamato art. 63, su cui è in parte ricalcato anche l’art. 89 del Codice dei contratti pubblici, ha introdotto nella legislazione comunitaria in tema di contratti pubblici l’istituto dell’avvalimento. Tale istituto si pone a tutela del diritto di un concorrente di fare affidamento su soggetti terzi per il soddisfacimento di requisiti di partecipazione alla gara di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale. La ratio è quella di aprire il mercato delle commesse pubbliche ad una maggiore concorrenza effettiva, a beneficio anche di piccole e medie imprese, che possono in questo modo partecipare a gare usufruendo delle possibilità permesse dai contratti di avvalimento. L’opinione della CGUE è che tale diritto di affidamento sulle capacità e requisiti di altri operatori sia certamente limitabile e contemperabile con altri interessi pubblici da parte delle legislazioni nazionali, ma non fino al punto di violare il generale principio di proporzionalità. In altri termini, per la CGUE, non è legittimo e aderente al principio di proporzionalità che le stazioni appaltanti abbiano l’obbligo di escludere un concorrente per le dichiarazioni mendaci del proprio ausiliario. Sarebbe più ragionevole che esse fossero obbligate ad ordinare al concorrente la sostituzione dell’ausiliario con altro operatore moralmente più affidabile senza, in altre parole, che al ricorso all’avvalimento possa conseguire l’effetto negativo dell’esclusione dalla gara a causa di fatti, quali sono le vicende giudiziarie di legali rappresentanti di una ditta ausiliaria, a cui il concorrente è per definizione estraneo e su cui non può, pertanto, esercitare alcun controllo.
La sentenza della CGUE appare coerente con il consolidato filone giurisprudenziale dei giudici di Lussemburgo teso ad imprimere una decisa ‘liberalizzazione’ ad istituti, quali l’avvalimento e il subappalto, che garantiscono una più estesa partecipazione al mercato delle commesse pubbliche, attraverso la rimozione di percepiti ‘lacci e lacciuoli’ regolatori che, sia pur animati da esigenze di legalità, appaiono agli occhi degli organi giurisdizionali comunitari eccessivamente restrittivi e, dunque, privi dei necessari requisiti di proporzionalità.
Alessandro Paccione
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