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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione
Diritto della concorrenza UE / Abuso di posizione dominante e servizi di comparazione online – Il Tribunale dell’UE ha in larga parte rigettato il ricorso di Google contro la decisione della Commissione nel caso ‘Google Shopping’
Con la sentenza pubblicata lo scorso 10 novembre (la Sentenza), il Tribunale dell’Unione europea (il Tribunale UE) ha in larga parte respinto il ricorso presentato dalla società Google LLC e della sua controllante Alphabet, Inc. (congiuntamente, Google) avverso la decisione (la Decisione) emanata dalla Commissione europea (la Commissione) nel giugno 2017 a conclusione del procedimento denominato ‘Google Search (Shopping)’ (il Procedimento). In particolare, con la Decisione la Commissione ha irrogato a Google una sanzione pari a oltre €2,4 miliardi per aver abusato della propria posizione di dominanza nei mercati dei servizi di ricerca generica e di comparazione online, adottando una condotta atta a favorire il proprio servizio di comparazione degli acquisti (denominato, appunto, ‘Google Shopping’) a discapito di quello offerto da motori di ricerca di minori dimensioni e specializzati nel settore dello ‘shopping comparison’.
In particolare, la Commissione ha sottolineato nella propria Decisione che Google – quando un utente utilizzava il suo motore di ricerca (‘Google.com’) – dava maggior risalto ai risultati di comparazione forniti da Google Shopping in quanto gli algoritmi di ricerca adottati da Google (finalizzati a classificare i risultati di ricerca sulla base della loro rilevanza) non trovavano applicazione nei confronti dei risultati prodotti da Google Shopping. Sul punto, la Commissione ha affermato che il concorrente posto nella posizione di maggior risalto compariva solo a pagina 4 dei risultati di ricerca. Tale condotta, quindi, avrebbe comportato una sensibile moltiplicazione del traffico su Google Shopping a discapito dei concorrenti.
Google ha presentato ricorso avverso suddetta Decisione. Quest’ultimo, tuttavia, come detto è stato in larga misura rigettato dal Tribunale UE sulla base delle seguenti ragioni:
i) in primis, il Tribunale UE – seppur sottolineando che una società non può essere guardata con sospetto per il solo fatto di detenere una posizione di dominanza in un dato mercato – ha confermato la natura anticoncorrenziale della condotta adottata da Google. Il Tribunale UE, infatti, ha ritenuto che Google avesse de facto reso impossibile una concorrenza nel merito in relazione a tali servizi di comparazione. Sul punto, il Tribunale UE ha tenuto in considerazione non solo i) il rilevante traffico di dati generato Google.com; ii) il comportamento degli utenti, i quali tendono a concentrarsi solo sui primi risultati forniti; iii) il sensibile flusso di traffico che è risultato ‘deviato’ dai servizi di comparazione concorrenti; ma anche la “vocazione universale” di Google.com, progettato per mostrare risultati in base alla loro rilevanza. Su tale ultimo aspetto, infatti, il Tribunale UE ha sottolineato come la promozione da parte di Google di un solo tipo di risultati (i propri) rappresenta una chiara “anormalità” in contrasto con la natura stessa del suo motore di ricerca.
Il Tribunale UE ha altresì confermato l’approccio della Commissione secondo cui Google.com deve essere inteso come ‘essential facility’, in quanto non esiste un reale sostituto (effettivo o potenziale) in grado di fornire il medesimo servizio di ricerca online generale. Sul punto, tuttavia, il Tribunale UE ha respinto le argomentazioni avanzate da Google, la quale basava la propria difesa sulla sentenza Bronner del 1998, relativa ad una fattispecie di ‘rifiuto di fornitura’ e che individua precise condizioni che debbono essere soddisfatte affinché possa accertarsi un abuso. Il Tribunale UE ha sottolineato come il Procedimento non riguardasse un “rifiuto di fornire un servizio”, bensì una differenza di trattamento da parte di Google a vantaggio del suo servizio di comparazione e pertanto il precedente Bronner (e le relative eccezioni) non è stato ritenuto rilevante;
ii) in secondo luogo, il Tribunale UE ha confermato gli effetti negativi per la concorrenza generati dalla condotta in esame, pur richiamando il consolidato approccio giurisprudenziale secondo cui la fattispecie di abuso di posizione dominante rappresenta un illecito ‘per oggetto’, il quale richiede la dimostrazione della mera idoneità della condotta interessata a ledere le dinamiche concorrenziali. In particolare, la Commissione ha sufficientemente dimostrato come il traffico di dati ‘dirottato’ verso Google Shopping non solo aveva dimensioni ragguardevoli, ma anche che tale effetto non risultava mitigato dall’esistenza di altre fonti di traffico, come le pubblicità (AdWords) o le app di comparazione, né dalle cc.dd. piattaforme ‘commerciali’ (come Amazon), ritenute appartenenti a un mercato diverso.
Occorre infine sottolineare che il Tribunale UE ha tuttavia accolto un motivo di ricorso presentato da Google e relativo al mercato interessato dall’abuso in questione. Secondo Google, infatti, la Commissione ha errato nell’indicare che la condotta avrebbe avuto effetti distorsivi della concorrenza sia i) sul mercato generale delle ricerche online, sia ii) su quello specializzato dei servizi di comparazione. Il Tribunale UE ha infatti accolto tale doglianza, sottolineando come la Commissione abbia mancato di fornire evidenza del fatto che tale condotta ha avuto effetti (anche solo potenziali) sul primo dei suddetti mercati. Tuttavia, l’accoglimento di tale argomentazione non ha comportato alcuna rideterminazione della sanzione imposta, poiché la Commissione non aveva tenuto conto del valore del fatturato generato da Google in tale mercato;
iii) in ultimo, il Tribunale UE ha sostenuto che Google non avrebbe dimostrato la sussistenza di alcun guadagno in termini di efficienza, atto a controbilanciare gli evidenti effetti negativi della condotta sanzionata.
Alla luce di quanto sopra, pertanto, il Tribunale UE ha confermato le principali argomentazioni della Commissione e, quindi, la sanzione inflitta a Google. La vicenda, tuttavia, non è ancora finita, in quanto l’ultima parola spetterà, in caso di appello (che si ritiene probabile), alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Luca Feltrin
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Private enforcement e settore del trasporto aereo – La Corte di Giustizia europea ribadisce che è possibile ottenere il risarcimento del danno da violazioni antitrust anche in relazione a condotte antecedenti al 2004
Con la sentenza pubblicata lo scorso 11 novembre, la Corte di Giustizia europea (CGUE) ha chiarito che, nell’ambito delle azioni di private enforcement, i giudici nazionali sono competenti ad applicare il divieto di intese anticoncorrenziali ai sensi della normativa europea anche in relazione a condotte avvenute prima dell’entrata in vigore del regolamento n. 1/2003 che non sono state oggetto di una precedente decisione della Commissione europea (Commissione).
La sentenza trae origine dalla decisione della Commissione nel 2010, con cui erano state sanzionate 21 società attive nel settore dei trasporti aerei per aver coordinato, tra il 1999 e il 2006, le loro politiche tariffarie per la fornitura di vari servizi di trasporto aereo merci, in violazione dell’art. 101 TFUE.
La decisione aveva per oggetto i comportamenti posti in essere, inter alia, su rotte tra aeroporti UE e paesi terzi nel periodo tra il maggio 2004 e il febbraio 2006. In particolare, la Commissione aveva ritenuto che i regolamenti applicabili non le attribuissero la competenza su condotte anteriori al maggio 2004.
A seguito della decisione, SCC ed Equilib, due società olandesi specializzate nella raccolta di crediti risarcitori (c.d. litigation vehicles), hanno presentato dinanzi il Tribunale di Amsterdam due azioni dirette a ottenere il risarcimento del danno subito dagli spedizionieri a causa del succitato comportamento. In tale contesto, il giudice ordinario ha chiesto alla CGUE se fosse competente ad applicare direttamente il divieto di intese anticoncorrenziali prima dell’entrata in vigore del regolamento 1/2003 (avvenuta il 1° maggio 2004), anche qualora la Commissione non si fosse precedentemente espressa su tali comportamenti.
Con la sentenza in esame, la CGUE ha ribadito che il divieto di intese anticoncorrenziali produce effetti diretti nei rapporti tra i singoli e, pertanto, attribuisce direttamente a questi diritti che i giudici nazionali devono tutelare.
La CGUE ha poi precisato che, in virtù del principio della certezza del diritto, i giudici nazionali non possono emettere sentenze che contraddicono una decisione contemplata o adottata dalla Commissione (norma ora codificata nell’art. 16 del regolamento n. 1/2003). Tuttavia, poiché la Commissione aveva ritenuto nella sua decisione del 2010 di non essere competente ad applicare il divieto di intese anticoncorrenziali alle condotte di cui trattasi, non vi era un rischio che il giudice del rinvio adottasse una decisione in contrasto con la Commissione.
La CGUE ha quindi concluso che i giudici nazionali sono competenti ad applicare direttamente il divieto di intese anticoncorrenziali a condotte verificatesi prima del 2004 anche quando non vi è una decisione da parte della Commissione o delle autorità nazionali della concorrenza che vertono su tali comportamenti.
Luigi Eduardo Bisogno
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Diritto della concorrenza Italia / Concentrazioni e settore dell’editoria scolastica – L’AGCM ha autorizzato con condizioni l’acquisizione di De Agostini Scuola S.p.A. da parte di Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Con la decisione del 4 novembre scorso (la Decisione), l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha autorizzato, subordinatamente all’attuazione di alcune condizioni di natura comportamentale, l’acquisizione di DeAgostini Scuola S.p.A. (DeA Scuola), società attiva prevalentemente nell’editoria scolastica, accademica e professionale, da parte di Arnoldo Mondadori S.p.A. (Mondadori, congiuntamente con DeA Scuola, le Parti), società appartenente al gruppo Fininvest e attiva nei settori dell’editoria di libri e di periodici, nonché nel segmento dei testi scolastici tramite le proprie controllate Mondadori Education S.p.A. e Rizzoli Education S.p.A (l’Operazione).
L’AGCM aveva deliberato l’avvio dell’istruttoria lo scorso 21 settembre 2021, ritenendo che la stessa fosse suscettibile di determinare la creazione o il rafforzamento di una posizione dominante nel mercato dell’editoria scolastica per la scuola secondaria di primo e secondo grado, nonché nel mercato dell’editoria parascolastica.
Con riferimento al mercato dell’editoria scolastica per la scuola secondaria, nella Decisione l’AGCM ha anzitutto rilevato che lo stesso risulta caratterizzato da una peculiare assenza di dinamicità, dovuta a molteplici ragioni. In primo luogo, per effetto della tendenza demografica in calo e del vincolo esogeno dovuto al tetto di spesa massimo per la dotazione libraria, previsto per ciascun anno di scuola secondaria superiore ai sensi del decreto-legge n. 112/2008, la dimensione complessiva di tale mercato, tanto in volume quanto in valore, non mostra prospettive di crescita. Inoltre, il mercato in oggetto si caratterizza per un ruolo marginale, se non del tutto assente, del prezzo nell’insieme delle variabili competitive. Infatti, le strategie di prezzo degli editori trovano, da un lato, un limite nel tetto di spesa complessivo e, dall’altro, nella staticità della domanda che circoscrive le occasioni di richiesta di nuovi libri soltanto alla sostituzione dei testi di adozione, la cui scelta è rimessa alla discrezionalità dei singoli docenti.
Per quanto riguarda la dinamica di mercato, la domanda è veicolata dai promotori scolastici, i quali rivestono un ruolo fondamentale per l’accesso agli insegnanti da parte degli editori e, dunque, per la promozione dei propri libri. Sul punto l’AGCM ha rilevato che i promotori, pur essendo operatori indipendenti, presentano in genere una dimensione economica molto inferiore rispetto alle case editrici e sono spesso legati alle seconde da contratti che prevedono clausole di gradimento o di esclusiva. In relazione al lato dell’offerta, l’AGCM ha dapprima rilevato che il mercato si presenta particolarmente concentrato, anche per effetto di varie operazioni di aggregazione che nel tempo si sono succedute, con i primi quattro operatori (nell’ordine: Zanichelli, Mondadori, Pearson e DeA Scuola) che detengono oltre il 75% delle quote di mercato. L’AGCM ha quindi constato che a seguito dell’Operazione, Mondadori sarebbe diventata l’operatore leader del settore, con una quota di mercato superiore al 35%.
In ragione della peculiare dinamica concorrenziale che caratterizza il mercato dell’editoria scolastica per la scuola secondaria, l’AGCM ha rilevato che l’Operazione avrebbe potuto cagionare un deterioramento della qualità dei testi, ridurre la varietà dell’offerta scolastica complessiva a danno dell’arricchimento culturale degli studenti, nonché pregiudicare le relazioni con i promotori scolastici. Al contrario, l’AGCM non ha riscontrato potenziali effetti negativi sul mercato per l’editoria parascolastica, relativo a materiali con contenuti didattici ancillari ai libri di testo (ad. es. libri per i compiti delle vacanze o testi di narrativa per edizioni scolastiche), dal momento che in tale mercato opererebbero altri importati editori in grado di esercitare pressione concorrenziale su Mondadori.
Al fine di risolvere le preoccupazioni concorrenziali sollevate dall’AGCM, le Parti hanno presentato una serie di impegni di natura comportamentale, i quali prevedono che Mondadori:
- effettuerà, per tre esercizi consecutivi, investimenti a favore di Dea Scuola non inferiori rispetto a quelli effettuati dalla stessa nella creazione di nuovi libri di testo;
- manterrà, per tre esercizi consecutivi, la società DeA Scuola separata rispetto alle altre società del proprio gruppo attive nel medesimo mercato;
- manterrà, per i prossimi anni, le reti commerciali di DeA Scuola separate ed in concorrenza con le proprie;
- non apporterà, per due esercizi consecutivi, modifiche peggiorative ai contratti in essere tra DeA Scuola ed i suoi promotori;
- applicherà anche alla rete di DeA Scuola le proprie best practices di rendicontazione dei promotori.
L’AGCM ha quindi ritenuto che gli impegni proposti dalle Parti fossero idonei a superare le criticità concorrenziali delineate e ne ha dunque deliberato l’approvazione, mostrando ancora una volta una maggiore apertura a misure di natura comportamentale rispetto alla Commissione europea.
Luca Casiraghi
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Tutela del consumatore / Pratiche commerciali scorrette e settore energetico – Il TAR ha respinto il ricorso proposto da ENI S.p.A. per l’annullamento del provvedimento AGCM, riconfermando la sanzione di 5 milioni di euro
Con la sentenza del 20 ottobre 2021, il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio (TAR) ha annullato il ricorso proposto da Eni S.p.A. (Eni) per l’annullamento del provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM o l’Autorità) (il Provvedimento). Il Provvedimento, che era stato oggetto di un precedente commento all’interno di questa Newsletter, sanzionava Eni per un ammontare pari al massimo edittale, 5 milioni di euro, per aver posto in essere una pratica commerciale ingannevole che era consistita nella diffusione di pubblicità aventi ad oggetto il carburante Eni Diesel+. Detto carburante era infatti presentato attraverso informative ritenute ingannevoli che ricollegavano al suo utilizzo un impatto ambientale positivo e gli attribuivano particolari caratteristiche in termini di riduzione dei costi e delle emissioni gassose.
I motivi del ricorso presentato da Eni riguardavano:
- la violazione dei principi del contradditorio, dal momento che l’AGCM, nel Provvedimento, aveva formulato contestazioni diverse da quelle che erano state oggetto dell’avvio dell’istruttoria. In particolare, all’apertura dell’istruttoria il focus era incentrato sulla fondatezza dei vanti prestazionali e sull’utilizzo dell’olio di palma per la componente organica del carburante, mentre il Provvedimento concentra i propri contenuti sull’indebito utilizzo del termine “green”;
- l’inidoneità dei messaggi pubblicitari a sviare i consumatori da una comprensione effettiva di quelli che sono gli effetti del carburante, tanto sull’ambiente quanto nell’ambito delle prestazioni;
- la veridicità delle proprie affermazioni sulle prestazioni di riduzione delle emissioni e dei consumi;
- l’erronea determinazione della sanzione, sia per motivi riguardati la condotta, solo ingannevole e non aggressiva, nonché inadatta a creare qualsivoglia pregiudizio economico per i consumatori, sia per motivi legati alla determinazione della durata, in quanto la condotta era già cessata alla chiusura dell’istruttoria.
Il TAR ha ritenuto infondato il ricorso. Con riguardo al primo motivo, il giudice ha rilevato che già nel provvedimento di avvio dell’istruttoria l’Autorità avesse fatto riferimento all’utilizzo, da parte del professionista, di “dichiarazioni ecologiche”.
Con riferimento alla difesa secondo cui il consumatore medio (in base a un’analisi statistica commissionata da ENI) sarebbe in grado di comprendere che con i claim in questione esse si intende “meno inquinante” e non “senza emissioni”, il TAR ritiene priva di pregio una valutazione in termini statistici, affermando la necessità di un’analisi di ordine sociale, culturale ed economica, dovendosi dunque fare riferimento, ai fini della tutela del consumatore, al contesto economico e al mercato nel quale egli si trova ad agire e alle caratteristiche dei beni o servizi oggetto di pubblicità.
Per quanto riguarda la sanzione, tenuto conto della sua funzione deterrente e del fatto che l’ammontare è solo una piccola frazione del fatturato totale della società sanzionata, nonché tenuto conto della diffusione capillare dei messaggi pubblicitari oggetto dell’istruttoria e del fatto che essi erano ancora in circolazione al momento della chiusura del procedimento, il TAR ne ha confermato l’ammontare.
In considerazione del fatto che la repressione di condotte potenzialmente qualificabili come “greenwashing” (ossia di natura ingannevole per quanto riguarda i claim ambientali pubblicizzati dal professionista) rappresentano una priorità di enforcement per l’AGCM, la sentenza in commento fornisce delle utili linee guida in ottica di compliance. Resta da vedere se l’impostazione sarà, in caso di appello, confermata dal Consiglio di Stato.
Alessia Delucchi
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Appalti, concessioni e regolazione / L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si pronuncia sul tema delle proroghe automatiche delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali
In data 9 novembre 2021, con le sentenze gemelle nn. 17 e 18, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria) si è pronunciata sull’annosa questione, deferitale lo scorso maggio con decreto del Presidente del Consiglio di Stato (Presidente), se sia o meno doveroso per lo Stato italiano disapplicare, per contrasto con la normativa di riferimento eurounitaria, la disciplina nazionale sulle proroghe automatiche delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali (concessioni). Il decreto di deferimento del Presidente è stato già oggetto di commento su questa Newsletter il 31 maggio 2021.
Oggetto dell’intervento nomofilattico in commento è la proroga automatica delle concessioni fino al 2033 ai sensi dell’art. 1, comma 682, della legge n. 145/2018 (legge di bilancio 2019) e il suo contrasto o meno con il principio delle gare pubbliche per l’assegnazione delle concessioni di beni scarsi di cui alla c.d. “Direttiva Bolkestein” (Direttiva) e all’art. 49 TFUE sulla libertà di stabilimento. Le principali questioni poste al vaglio dell’Adunanza Plenaria sono le seguenti: i) se vi sia un obbligo di disapplicazione della citata norma della legge di bilancio 2019; ii) se tale obbligo di disapplicazione gravi solo sugli organi giurisdizionali ovvero si estenda anche alla p.a.; iii) se la disapplicazione della legge di bilancio 2019, nella parte che qui interessa, implichi anche il venir meno delle proroghe già concesse e/o oggetto di giudicato favorevole.
In relazione alla prima questione, l’Adunanza Plenaria si è uniformata alle conclusioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) nella sentenza Promoimpresa del 2016 nelle cause riunite C-485/14 e C-67/15. Ha, pertanto, dichiarato la sussistenza dell’obbligo di disapplicazione sulla scorta di un duplice presupposto: i) l’esistenza di un contrasto tra l’istituto delle proroghe automatiche e la Direttiva (oltre al principio di libertà di stabilimento); e ii) la natura self-executing della Direttiva. Da qui discende la sussistenza del descritto obbligo di disapplicazione.
In relazione alla seconda questione, il massimo organo della giustizia amministrativa ha statuito che l’obbligo di disapplicazione della normativa nazionale in contrasto con quella europea sussiste non solo per i giudici, ma anche per le p.a. Oltre alla copiosa giurisprudenza a supporto di questa conclusione, ha valorizzato un argomento di ordine logico: esentare la p.a. dal suddetto obbligo implicherebbe imporle di adottare atti illegittimi.
In relazione alla terza questione, l’Adunanza Plenaria ha concluso che la disapplicazione della disposizione della legge di bilancio 2019 in esame implica la decadenza di tutte le proroghe già concesse, anche ove oggetto di giudicato favorevole. Tale conclusione è avvalorata dalla asserita insussistenza della natura di atto amministrativo in senso proprio delle proroghe concesse dalle p.a. fino ad ora, le quali sarebbero soltanto dichiarative degli effetti della legge e, dunque, prive di carattere autoritativo. Venendo meno quest’ultima, tutti gli atti meramente ricognitivi dei suoi effetti decadrebbero automaticamente. Ciò vale, secondo l’Adunanza Plenaria, anche per le proroghe oggetto di giudicato favorevole che, in quanto originanti rapporti di durata, sarebbero comunque incise dallo jus superveniens (nella specie, la sentenza interpretativa Promoimpresa della CGUE).
Viste le notevoli implicazioni sociali della sentenza e allo scopo di dare alle amministrazioni il tempo per organizzare le gare per l’affidamento delle concessioni, infine, l’Adunanza Plenaria ha deciso di differire gli effetti delle sentenze in esame sino al 31 dicembre 2023.
In attesa di un intervento organico del legislatore sulla materia, si ribadisce, come osservato nel commento dello scorso maggio, la possibilità di valutare l’impiego del Codice dei contratti pubblici e della disciplina ivi contenuta per regolare le modalità di assegnazione delle concessioni. In altre parole, anche in assenza di un comunque auspicato intervento da parte del legislatore, le amministrazioni non sarebbero del tutto prive di strumenti per uniformarsi ai principi e alle statuizioni delle pronunce qui esaminate.
Alessandro Paccione
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