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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione - 8 aprile 2024
Diritto della concorrenza – Europa / Foreign Subsidies e settore energetico – La Commissione europea ha avviato due nuove indagini approfondite ai sensi del regolamento sui Foreign Subsidies nel settore dell’energia
Con la decisione del 3 aprile 2024, la Commissione europea (Commissione) ha avviato due nuove indagini approfondite (c.d. Fase II) ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 3, del Regolamento (UE) n. 2022/2560 (Regolamento Foreign Subsidies) in relazione a due offerte presentate nell’ambito di una gara di appalto pubblico per la realizzazione di un parco fotovoltaico in Romania.
La gara, bandita da Societatea Parc Fotovoltaic Rovinari Est S.A., una società statale romena, aveva ad oggetto la progettazione e la realizzazione di un parco fotovoltaico da 110 MW, per larga parte finanziato attraverso le risorse dell’EU Modernisation Fund. La Commissione ha avviato le proprie istruttorie a seguito delle notifiche delle offerte presentate da due consorzi, i quali vedevano tra i propri membri società indirettamente riconducibili al governo della Repubblica Popolare Cinese, ossia LONGi Solar Technologie GmbH, Shanghai Electric UK Co. Ltd. e Shanghai Electric Hong Kong International Engineering Co. Ltd. (le Società).
Le istruttorie sono volte a valutare la sussistenza di effetti distorsivi collegati a sovvenzioni estere potenzialmente ricevute dalle Società e che possano aver permesso ai relativi consorzi di presentare offerte a condizioni indebitamente vantaggiose rispetto a quelle delle imprese concorrenti. Tale indagine approfondita si estenderà per una durata massima di 110 giorni lavorativi e potrà concludersi, qualora riscontrata l’esistenza di effetti restrittivi, con l’accettazione di impegni o con l’imposizione di un divieto di assegnazione dell’appalto alle Società.
Come è noto, il Regolamento Foreign Subsidies, entrato in vigore il 12 luglio 2023, è diretto a salvaguardare il corretto funzionamento del mercato interno dell’Unione europea dai possibili effetti distorsivi causati da sovvenzioni da parte di Stati extra-UE, al fine ultimo di garantire condizioni di parità tra gli operatori economici che vi operano, stante l’esistenza della disciplina sugli aiuti di Stato concessi dagli Stati membri. Il Regolamento ha introdotto (i) due strumenti di controllo preventivo, collegati alla verifica della presenza di sovvenzioni distorsive in occasione di operazioni di concentrazione e di appalti pubblici, e (ii) uno strumento di verifica residuale e successiva, attivabile d’ufficio, orientato all’analisi di tutte le situazioni di mercato che ricadono al di fuori dell’ambito di applicazione dei primi due strumenti.
In particolare, le disposizioni del Regolamento Foreign Subsidies relative alle procedure di appalto pubblico hanno dato avvio, sino ad ora, a tre indagini approfondite della Commissione. Oltre a quelle in commento, il 16 febbraio 2024, infatti, era stata avviata la prima istruttoria nei confronti di una società del gruppo CRRC (CRRC), attivo nel settore ferroviario e anch’esso indirettamente riconducibile al governo della Repubblica Popolare Cinese, rispetto all’offerta da questa presentata nell’ambito di una gara per la fornitura di treni elettrici in Bulgaria (già commentata in questa Newsletter). A seguito dell’avvio di tale indagine, il 26 marzo 2024, CRRC aveva rinunciato all’offerta presentata.
Per la valutazione sulle eventuali distorsioni originate da sovvenzioni estere nel caso in commento non resta che attendere le conclusioni della Commissione. È, tuttavia, sin d’ora rilevante evidenziare la portata del dibattito che si sta sviluppando intorno al Regolamento Foreign Subsidies e alle sue prime applicazioni. Se da un lato, infatti, una parte degli osservatori e delle istituzioni europee hanno applaudito agli interventi della Commissione presentati come funzionali alla tutela della sicurezza e alla concorrenzialità dell’Unione europea, dall’altro, sono stati osservati, tra gli altri dalla Camera di Commercio Cinese presso l’Unione europea, l’ampiezza e la vaghezza di nozioni chiave come quella di contributo finanziario estero e il rischio di violazione dei principi di equità e trasparenza.
Alberto Galasso
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Diritto della concorrenza – Italia / Concentrazioni e settore del cemento – L’ACGM ha avviato una nuova istruttoria approfondita in relazione ad un’operazione sotto-soglia a seguito dell’esercizio dei propri poteri di call-in
Con la decisione adottata lo scorso 26 marzo 2024 (la Decisione), l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l’AGCM) ha deliberato l’avvio della c.d. Fase II in merito a: (i) l’operazione di acquisizione, da parte di Alpacem Cementi Italia S.p.A. (Alpacem o la Società - controllata del gruppo austriaco Wietersdorfer) attiva nella produzione e nella commercializzazione di cemento, di un impianto per la produzione di clinker e cemento nella località di Fanna (Impianto di Fanna), ramo d’azienda di Buzzi Unicem S.r.l.,; e (ii) l’operazione di acquisto indiretto – sempre da parte della Società – del controllo esclusivo di rami di azienda di proprietà di Unicalcestruzzi S.p.A., (società controllata da Buzzi S.p.A.), costituiti da sedici impianti per la produzione di calcestruzzo in Veneto e Friuli Venezia Giulia (l’Operazione).
Come già commentato in questa Newsletter, la Decisione in oggetto rappresenta uno dei primi casi in cui l’AGCM esercita il potere di richiedere la notifica (c.d. call-in) relativamente a due operazioni di concentrazione, notificate congiuntamente, che non raggiungono le soglie per la notifica ex art. 16, comma 1 della legge n. 287/1990, nonché il secondo caso di avvio della Fase II a seguito dell’esercizio di siffatta prerogativa, nel nuovo termine di 90 giorni dalla notifica dell’operazione.
Nonostante il fatturato totale realizzato a livello nazionale dalle imprese interessate sia inferiore alla soglia di 532 milioni di euro (ossia la prima delle due soglie cumulative previste dal citato art. 16), l’AGCM ha richiesto la notifica dell’Operazione ai sensi dell’art. 16, comma 1-bis, in quanto il fatturato individuale realizzato nell’ultimo esercizio a livello nazionale da ciascuna delle parti interessate è risultato superiore a 32 milioni di euro; è proprio il soddisfacimento di questa seconda soglia che legittima l’esercizio dei c.d. call-in power in rilievo. Secondo la Decisione, l’avvio della Fase II è peraltro giustificato alla luce di possibili rischi concorrenziali, sia sul piano orizzontale, sia su quello verticale, che potrebbero emergere nel mercato della produzione e vendita di cemento ed in quelli verticalmente collegati, rispettivamente a monte e a valle, del clinker e del calcestruzzo.
In primo luogo, a seguito dell’Operazione, Alpacem raggiungerebbe una quota combinata di vendite all’interno del mercato del cemento rilevante (ossia, un’area con raggio pari a 250 km incentrata sull’impianto oggetto di acquisizione) pari circa al 40-45% (a circa il 35-40% iniziale detenuto dal gruppo Wietersdorfer, si aggiungerebbe il 5-10% circa di pertinenza dell’impianto di Fanna), risultando di gran lunga il maggior operatore, seguito da concorrenti con quote inferiori al 10%. Ad avviso dell’AGCM, l’Operazione ricondurrebbe a un unico centro decisionale l’Impianto di Fanna e gli altri 3 impianti di proprietà di Alpacem, riducendo così i vincoli concorrenziali derivanti dal fatto che, considerato l’elevato costo del trasporto di cemento, l’Impianto di Fanna rappresenta quello maggiormente sostituibile con gli altri impianti del gruppo acquirente già presenti nell’area.
In secondo luogo, l’Operazione potrebbe risultare problematica anche all’interno dei vari mercati del calcestruzzo (aree con raggio di 30km incentrato su ciascun impianto in via di acquisizione), nel quale l’affitto a lungo termine dei 16 impianti da parte di Alpacem potrebbe determinare la creazione di una posizione dominante della Società nei vari mercati interessati (in alcuni dei quali anche nelle forma di monopolio). Tenendo conto del fatto che Alpacem produce e fornisce cemento ai produttori di calcestruzzo, aumentando il grado di integrazione nel mercato a valle, la Società potrebbe essere incentivata a riservare un prezzo più basso agli stabilimenti di calcestruzzo del proprio gruppo a svantaggio dei concorrenti; pertanto, secondo l’AGCM, il rischio di input foreclosure non può essere escluso.
In terzo luogo, potrebbe sussistere un rischio di input foreclosure anche nel mercato del clinker, dato dall’eventualità in cui, a seguito dell’Operazione, Alpacem sia incentivata a riservare il clinker prodotto dall’Impianto di Fanna ai propri impianti di macinazione nelle immediate vicinanze.
Posto che l’AGCM non ha ritenuto possibile escludere che l’Operazione sia suscettibile di ostacolare in modo significativo la concorrenza effettiva nel mercato del cemento e in quelli verticalmente collegati del calcestruzzo e del clinker, non resta che attendere l’esito dell’istruttoria che dovrebbe concludersi entro il 24 giugno prossimo.
Allegra Tucci
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Abusi e settore farmaceutico – Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso presentato da Leadiant per la riforma della sentenza del TAR Lazio con cui era stata confermata la sanzione di 3,5 milioni di euro imposta dall’AGCM per un abuso di posizione dominante avente a oggetto l’imposizione di prezzi eccessivi per alcuni farmaci
Con la sentenza pubblicata lo scorso 29 marzo il Consiglio di Stato (il CdS) ha rigettato il ricorso presentato da Leadiant Biosciences Ltd e Essetifin S.p.A. (collettivamente Leadiant) avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (il TAR) che aveva, a sua volta, confermato il provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l’AGCM). In tale ultimo provvedimento, l’AGCM aveva accertato l’abuso di posizione dominante da parte di Leadiant per l’imposizione di un prezzo ingiustificatamente gravoso per un farmaco necessario al trattamento di una malattia rara, irrogando una sanzione di circa 3,5 milioni di euro.
Nel 2017 Leadiant, dopo aver acquistato e avviato un progetto per un nuovo utilizzo di una molecola già impiegata nella terapia delle coliche biliari (il Farmaco), aveva ottenuto la designazione orfana e la conseguente autorizzazione a commercializzare in via esclusiva il Farmaco per il trattamento della xantomatosi cerebrotendinea, una patologia ereditaria estremamente rara. Avviate le negoziazioni per la determinazione del prezzo di vendita del farmaco al Servizio Sanitario Nazionale (SSN), Leadiant aveva concordato con l’Agenzia Italia del Farmaco (l’AIFA) un prezzo pari a circa 6.000 euro per confezione di 100 capsule. L’AGCM, ritenendo che simile prezzo fosse eccessivo, aveva avviato un’istruttoria per abuso di posizione dominante, all’esito della quale aveva accertato e sanzionato la sussistenza dell’abuso e imposto i relativi rimedi. Il provvedimento era stato poi integralmente confermato dal TAR.
Il CdS ha preliminarmente ribadito il principio per il quale la liceità di una condotta secondo la regolazione di settore non impedisce uno scrutinio di tale condotta ai sensi del diritto antitrust. In tal senso, secondo il CdS, il fatto che il prezzo fosse stato lecitamente determinato attraverso una negoziazione tra Leadiant e AIFA non impedisce all’AGCM di valutare la liceità del detto prezzo secondo le norme del diritto della concorrenza.
Relativamente all’esistenza di una posizione dominante di Leadiant nel mercato dei farmaci per il trattamento della xantomatosi cerebrotendinea, il CdS ha evidenziato come la partecipazione di un’autorità (in questo caso, l’AIFA) dal lato della domanda nella negoziazione del prezzo di un prodotto non consenta, di per sé, di escludere l’esistenza di potere di mercato del fornitore. L’esistenza di un “contropotere” dell’acquirente dovrebbe, infatti, essere sempre accertata avendo riguardo alle circostanze del caso concreto, indipendentemente dal fatto che l’acquirente sia un’autorità pubblica in un regime regolamentato.
Rispetto alla condotta abusiva, il CdS ha ricordato che l’abuso di imposizione di un prezzo eccessivamente gravoso deve essere valutato sulla base del c.d. United Brands test, elaborato nell’omonima sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (la CGUE), e secondo cui l’abuso in parola sussiste se il prezzo è (i) eccessivo e (ii) iniquo.
Con riguardo al primo requisito, il CdS ha ritenuto che l’AGCM avesse correttamente applicato il metodo cost plus e il metodo del Tasso Interno di Rendimento per dimostrare l’eccessività del prezzo rispetto ai costi e agli investimenti sostenuti da Leadiant per la nuova commercializzazione del Farmaco. Rispetto al requisito dell’iniquità, il CdS ha rigettato la posizione di Leadiant secondo cui tale requisito sarebbe soddisfatto soltanto se il prezzo fosse iniquo sia (i) in assoluto, sia (ii) a seguito di un’analisi comparativa dei prodotti concorrenti. Dopo un’attenta lettura della giurisprudenza della CGUE, infatti, il CdS ha ritenuto che, per soddisfare il requisito dell’iniquità, sia sufficiente accertare che il prezzo sia iniquo in assoluto oppure che lo sia a seguito di un’analisi comparativa dei prodotti concorrenti. La scelta di uno dei due criteri o di entrambi, tuttavia, non è lasciata alla discrezionalità dell’AGCM, ma è dettata dalle circostanze del caso concreto e dalla tipologia di prodotto. Nel caso di specie, la disomogeneità dei mercati farmaceutici di altri Paesi, caratterizzati da normative settoriali molto diverse fra loro, nonché le diverse metodologie di determinazione del prezzo di un farmaco, impedirebbero il ricorso al criterio comparativo. In conseguenza di ciò, nel ritenere che il prezzo del Farmaco non potesse essere giustificato dai (ridotti) costi sostenuti da Leadiant per la nuova applicazione del Farmaco, né dalla (carente) innovatività del prodotto, l’AGCM avrebbe – secondo il CdS – correttamente applicato il criterio dell’iniquità in assoluto.
La decisione del CdS aggiunge un ulteriore tassello ad una forma di abuso che sporadicamente è apparso nella casistica antitrust e che, solo recentemente, sembra sollevare un maggiore interesse delle autorità della concorrenza, contribuendo a chiarire, tra l’altro, il requisito dell’iniquità del United Brands test.
Samuel Scandola
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Tutela del consumatore / Pratiche commerciali scorrette e “green claim” – Il Consiglio di Stato chiude il cerchio sulla vicenda Volkswagen interpretando in modo restrittivo il principio del ne bis in idem a valle delle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia
Con la sentenza dello scorso 22 marzo 2024 (la Sentenza), a seguito del rinvio pregiudiziale operato alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (la CGUE), il Consiglio di Stato (CdS) ha chiuso il cerchio sulla vicenda che ha visto Volkswagen Group Italia S.p.A. (VGI) e Volkswagen Aktiengesellschaft (VWAG, con VGI le Ricorrenti) ricorrere avverso il provvedimento con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) le aveva sanzionate nel 2016 per aver posto in essere pratiche commerciali scorrette. Rigettando il ricorso, il CdS si è concentrato sul principio del ne bis in idem a valle delle indicazioni fornite dalla CGUE in sede di rinvio pregiudiziale.
La vicenda trae le mosse dalla decisione con cui l’AGCM aveva sanzionato le Ricorrenti per aver posto in essere pratiche commerciali scorrette relative alla commercializzazione in Italia (e relativa promozione pubblicitaria tramite asseriti “vanti ecologici”) di veicoli diesel nei quali era stato installato un software che consentiva di alterare la misurazione dei livelli di emissione di ossidi di azoto (NOx) durante i test “su banco” svolti nell’ambito del procedimento di “omologazione” del veicolo rispetto alle sue reali prestazioni su strada (la Decisione). Le Ricorrenti avevano presentato ricorso dinanzi al TAR del Lazio e, mentre era pendente, la Procura di Braunschweig (in Germania) aveva comminato a VWAG una sanzione di 1 miliardo di euro per negligenza nella supervisione delle attività connesse all’omologazione (l’Ordinanza); tale sanzione, pur intervenuta successivamente alla Decisione, era divenuta definitiva prima di quella italiana in quanto l’Ordinanza non era stata impugnata. Le Ricorrenti avevano quindi lamentato l’illegittimità sopravvenuta della Decisione per violazione del principio del ne bis in idem. Il TAR del Lazio rigettava il ricorso e la questione si spostava dinanzi ai giudici di Palazzo Spada, che rinviavano la questione alla CGUE (si veda la Newsletter del 17 gennaio 2022) chiedendo se una sanzione in materia di pratiche commerciali scorrette potesse costituire una sanzione di natura penale, e se potesse applicarsi il principio del ne bis in idem in un caso, come quello di specie, in cui si avevano due decisioni emesse in Stati diversi, in procedimenti che tutelavano interessi diversi, e dove la decisione passata in giudicato (l’Ordinanza) era stata emessa successivamente alla Decisione (ancora sub iudice). La CGUE concludeva che (i) una simile sanzione ha natura sostanzialmente penale; (ii) il principio del ne bis in idem può applicarsi anche quando un soggetto è stato sanzionato penalmente per gli stessi fatti in un altro Stato membro anche se detta condanna era successiva alla sanzione originariamente irrogata, se divenuta “definitiva” (ossia non più impugnabile) prima; (iii) una limitazione del ne bis in idem (e quindi un cumulo di sanzioni) può aversi qualora non rappresenti un onere eccessivo per l’interessato, esistano norme chiare e precise che consentano di prevedere un cumulo sanzionatorio, ed i procedimenti siano stati condotti in modo sufficientemente coordinato e ravvicinato (si veda la Newsletter del 18 settembre 2023).
Esprimendosi a valle del rinvio pregiudiziale, il CdS ha rigettato il ricorso, confermando definitivamente la Decisione. Quanto all’errato accertamento delle pratiche commerciali scorrette, aggressive e comunque in violazione dei doveri di diligenza professionale (artt. 20, 21 e 23 del Codice del Consumo), il CdS ha ritenuto i motivi di appello infondati in quanto, tra gli altri: (i) non era richiesto all’AGCM di dimostrare il dolo specifico della condotta; (ii) la condotta rilevante (installazione del software ed averlo “celato” ai consumatori enfatizzando le caratteristiche “ambientali” dei veicolo) era in sé sufficiente per affermare la violazione degli obblighi di diligenza professionale e la potenziale incidenza sul comportamento del consumatore, posto che il consumatore medio non aveva ragioni di dubitare della veridicità ambientale dei “claim” proposti dalla casa automobilistica. Sul punto, interessante l’affermazione del CdS che – nel rigettare la valenza delle sentenze di vari Tribunali civili depositate dalle Ricorrenti – ha affermato che “le conclusioni raggiunte in una … controversia civilistica di risarcimento del danno non sono dirimenti ad escludere il carattere scorretto della pratica e, per converso, il carattere scorretto della pratica non è da sola sufficiente a riconoscere la fondatezza di un rimedio risarcitorio…”; (iii) i messaggi pubblicitari in rilievo, a prescindere dal livello di dettaglio e dal fatto che non contenessero espliciti richiami ai NOx, si erano comunque fondati su caratteristiche dei veicoli non reali, in quanto il processo di omologazione era stato alterato e, con esso, la conformità del veicolo all’omologazione.
La parte di maggior interesse della Sentenza sembra essere tuttavia quella relativa al ne bis in idem: dopo aver confermato (sulla scia di quanto indicato dalla CGUE) che la sanzione di cui alla Decisione aveva natura sostanzialmente penale e che l’Ordinanza, pur antecedente, era divenuta definitiva prima (riconoscendo che “l’individuazione di quale decisione possa essere o diventare “bis” finisce per essere una variabile ogni volta dipendente in qualche misura anche dalle scelte processuali di parte”), il CdS si è concentrato sulla valutazione del requisito dell’“idem” (ossia l’identità delle condotte).
In primo luogo, il CdS afferma che il perimetro di applicazione del ne bis in idem può riguardare solo gli aspetti propriamente sanzionatori della Decisione, quindi non verrebbe in ogni caso “travolta” la parte in cui si è accertato l’illecito e si è vietata la diffusione/continuazione dello stesso (in quanto tali poteri non sfociano in un provvedimento di natura “sostanzialmente penale”, per cui il ne bis in idem non potrà interessare segmenti di un procedimento non finalizzati all’applicazione di una sanzione). Per il CdS, una diversa interpretazione “annichilir[ebbe] totalmente la tutela amministrativa dei consumatori”. In secondo luogo, il CdS ritiene che il controllo e la partecipazione azionaria totalitaria di VWAG su VGI non elidano la distinta soggettività giuridica di quest’ultima, per cui resterebbe alterità soggettiva tra l’Ordinanza e la Decisione. Passando all’identità oggettiva del fatto, essa è esclusa dal CdS (contrariamente a quanto, come riconosce il CdS, poteva sembrare dalla sentenza della CGUE), in quanto l’Ordinanza aveva considerato una condotta distinta dalla commercializzazione in Italia dei veicoli muniti del software incriminato. Il mero riferimento ad un elemento di fatto che riguarda un altro Stato “non può essere sufficiente per ritenere che tale elemento di fatto sia all’origine del procedimento o sia stato considerato da tale autorità tra gli elementi costitutivi di tale infrazione”. Inoltre, pur essendo comune ad entrambi i provvedimenti la condotta presupposta (l’istallazione del software), essa costituisce “un tassello delle complessive indagini” non sufficiente a predicare l’identità dei fatti. L’AGCM aveva infatti anche svolto uno specifico accertamento in relazione all’ulteriore componente della fattispecie costituita dalla potenziale incidenza sul comportamento del consumatore. I riferimenti contenuti nell’Ordinanza all’Europa non sono stati ritenuti quindi sufficienti a fondare l’identità oggettiva della condotta in quanto manca – per il CdS – un “chiaro, espresso e puntuale riferimento a quanto accaduto” in Italia. Ciò vale a fortiori per i materiali pubblicitari, che erano rivolti ai consumatori italiani e attenevano fatti diversi (e ulteriori) da quanto oggetto dell’Ordinanza. Anche i riferimenti all’“insieme di fatti inscindibilmente connessi” relativamente a omologazione, pubblicizzazione e distribuzione dei veicoli sono stati ritenuti inidonei a scalfire tale conclusione. Per il CdS – diversamente opinando – “il ne bis in idem rischierebbe di essere affermato non in relazione al fatto materiale concretamente accertato […] ma ad un apprezzamento comunque giuridico […] o persino un effetto giuridico derivante dall’applicazione di regole di diritto interno che, per il tramite di questo principio, troverebbe quindi spazi di applicazione extraterritoriale” – effetto extraterritoriale che il ne bis in idem non può concedere.
La sentenza in commento ha particolare importanza per l’assoluta novità della questione esaminata dal CdS. Quest’ultimo sembra chiedere – per l’accertamento del ne bis in idem - una disamina dettagliata delle condotte in analisi, facendo pensare ad un’applicazione del principio molto più limitata di quanto si sarebbe atteso a valle delle indicazioni della CGUE. E ciò in ragione – sembra – della prominenza, nelle menti dei giudici del CdS, del principio di sovranità nazionale. Certamente si tratta di un precedente rilevante in ottica prospettica, stante la crescente frequenza di condotte transfrontaliere che intersecano molteplici interessi tutelati da diverse autorità nazionali/sovranazionali pur nascendo dai medesimi fatti “presupposti”, e la tensione che inerentemente potrebbe crearsi rispetto a un’ipotetica extraterritorialità del diritto nazionale rispettivamente applicato (si pensi ad esempio ai mercati digitali e alla tutela offerta dal Digital Markets Act, al crocevia con le norme a tutela della concorrenza e della privacy).
Cecilia Carli
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Appalti, concessioni e regolazione / Appalti, concessioni e regolazione – Prima applicazione del nuovo principio del risultato
Con sentenza 26 marzo 2024 n. 2866, il Consiglio di Stato ha confermato la decisione del TAR Lombardia nello stabilire che, in caso di capitolato ambiguo, vada preferita l’interpretazione della clausola che consente la presentazione di un prodotto funzionante e comparabile con gli altri. Il Consiglio di Stato ha sostenuto che, qualora il significato letterale della clausola non sia chiaro, il partecipante debba interpretare la lex specialis anche alla luce del principio del risultato.
La vicenda nasce in relazione a un bando pubblicato dall’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale della Valle Olona per la fornitura e l’installazione di 17 sistemi di anestesia e relativo materiale di consumo. Il capitolato consentiva la presentazione di offerte con sistemi monouso oppure con sistemi riutilizzabili, ma, con riferimento ai secondi, non era chiaro se l’offerta dovesse anche includere la fornitura della ‘calce sodata’ che è necessaria per il loro funzionamento.
Nel dubbio, prima della presentazione dell’offerta, la società Solmed S.p.A. (Solmed) ha presentato una richiesta di chiarimenti all’amministrazione, la quale però ha risposto evasivamente. Di conseguenza, la società ha presentato un’offerta per la fornitura di prodotti riutilizzabili senza la calce sodata e si è aggiudicata la procedura.
La seconda classificata ha impugnato il provvedimento davanti al TAR Lombardia che lo ha accolto, annullando l’aggiudicazione in capo a Solmed. Secondo il TAR, la lex specialis va interpretata nel suo complesso e, alla luce di questo criterio, il giudice di primo grado ha ritenuto che, nel caso di specie, essa richiedeva in ogni caso la fornitura di prodotti idonei all’uso e che, pertanto, le offerte di sistemi riutilizzabili non potevano prescindere dall’includere anche la fornitura di calce sodata.
La società Solmed ha impugnato la sentenza di primo grado. Il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del TAR e la sua motivazione. Al tempo stesso, esso ha prospettato anche l’applicazione di un ulteriore criterio interpretativo. La decisione del Collegio ha richiamato una clausola del capitolato di gara che qualificava l’appalto come “obbligazione di risultato” e ne ha rinvenuto un richiamo al principio di risultato ex art. 1 del nuovo codice appalti, che non sarebbe stato applicabile al caso ratione temporis.
Secondo il collegio il riferimento al risultato esprime la volontà dell’Amministrazione di assoggettare la procedura al rispetto di tale principio, e impone ai partecipanti un obbligo di interpretazione conforme della lex specialis, in modo tale da adiuvare l’Amministrazione al raggiungimento dello scopo. Secondo questa interpretazione, il principio di risultato non si pone come parametro di valutazione dell’azione amministrativa, ma come onere in capo ai partecipanti nell’interpretazione della lex specialis e, con esso, del volere della stazione appaltante.
Giulia Valenti
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